omelia alla messa in suffragio
dei vescovi, sacerdoti e diaconi defunti della nostra chiesa locale
Capua, 3 novembre 2018
Dopo la celebrazione della Solennità di tutti i Santi e la Commemorazione dei fedeli defunti, siamo riuniti per una particolare preghiera di suffragio per i vescovi, presbiteri e diaconi della nostra Chiesa locale.
Credo sia opportuno che inseriamo nella nostra preghiera anche i religiosi e le religiose che con noi hanno condiviso l’impegno della testimonianza e la gioiosa fatica dell’apostolato.
Quest’anno hanno lasciato questa dimora temporanea che è la storia dell’uomo su questa terra tre sacerdoti: mons. Salvatore Foglia, Mons. Domenico Di Salvia e, più recentemente, don Luigi Moretti. Li ricordiamo tutti con affetto e riconoscenza: in maniera diversa, con le peculiarità del loro carattere e lo specifico stile espresso nel loro ministero, hanno contribuito alla costruzione del Regno di Dio sul nostro territorio collaborando all’opera redentrice del Signore Crocifisso e Risorto.
Ancora una volta dobbiamo registrare il divario in negativo tra sacerdoti che passano alla Chiesa trionfante e quanti iniziano, con l’ordinazione, il loro ministero: 3 a 1 nel 2018, tre defunti e una sola ordinazione.
Sono certo che ciascuno di voi riflette su questi dati che purtroppo non riguardano solo la nostra Arcidiocesi, mentre notizie non confortanti ci raggiungono circa la cronica mancanza di presbiteri e di vocazioni al presbiterato nel nostro paese e, in maniera ancora più preoccupante, nei paesi del nord Europa.
Non faremo un’analisi della situazione – del resto non ne sarei neanche capace e non solo per la mancanza di dati specifici – ma forse una maggiore attenzione a possibili germi di vocazioni nelle nostre realtà parrocchiali potrebbe essere opportuna per non solo scorgere, ma promuovere possibili cammini vocazionali con la nostra testimonianza di preti contenti di essere stati chiamati e che dopo tanti anni, nonostante delusioni e incomprensioni non previste e giudizi o cattiverie gratuite subite con pazienza, siamo sempre felici di aver risposto sì alla chiamata del Signore e saremmo ancora pronti a farlo. Questo vale anche per le consacrate.
Vi ricordavo all’omelia della Solennità di San Roberto Bellarmino e lo ripeto ora, quanto il Santo Padre nella bella e semplice Esortazione Apostolica Gaudete et exultate, sulla universale vocazione alla santità ci diceva circa la santità della porta accanto: dopo aver citato i genitori, gli uomini e le donne impegnati nel lavoro per portare avanti la famiglia, i malati e i sofferenti, il Papa ricordava anche “le religiose anziane che continuano a sorridere” (n. 7). Ecco, questa è vera promozione vocazionale: testimoniare che l’impegno apostolico nell’ubbidienza al comando di Gesù può essere faticoso e non sempre gratificante, ma ti riempie il cuore dando pienamente senso alla tua vita.
La mancanza di vocazioni ai Ministeri Ordinati e alla vita consacrata è una situazione drammatica che è sempre davanti ai nostri occhi, la incrociamo quotidianamente quando, per una qualsiasi evenienza abbiamo bisogno di essere sostituiti e non diventa facile farlo. Ma nonostante questo, nonostante questa carenza che ha visto altrove molte parrocchie nella necessità di accorparsi sotto la guida di un solo presbitero, il discernimento non deve essere meno attento e meno severo perché ogni scelta sia opportunamente considerata e ogni valutazione – da quella del parroco, dell’educatore in seminario, dello stesso popolo fedele – aiuti il Vescovo o il Superiore religioso per una serena e ponderata decisione.
Resta fondamentale l’invito di Gesù: “Pregate il padrone della messe”. Questo mi lascia molto pensare perché noi preghiamo ma spesso non riusciamo a vedere i frutti della nostra preghiera. E allora mi viene in mente il brano di Giacomo: “Voi non ottenete perché non chiedete, chiedete non ottenete perché chiedete male” (4, 2a-3). Carissimi confratelli nel sacerdozio, diaconi, religiose e fedeli laici, preghiamo bene? Preghiamo abbastanza? O preghiamo male? Pensiamoci.
Prima lettura di questa celebrazione, Paolo ai Corinzi: “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti”. Poi l’Apostolo aggiunge il parallelismo Adamo-Cristo, morte-vita; Cristo è la primizia poi, alla sua venuta, quelli che appartengono a Lui.
Ma in che modo noi possiamo sperimentare la vita in Cristo? Paradossalmente la sperimentiamo nel nostro quotidiano morire.
Nel brano evangelico di Giovanni, Gesù confida ai discepoli in che modo Egli sarà glorificato: nell’umiliazione della croce. Sembra una contraddizione ma il Maestro insiste col paragone del chicco di grano che rimane solo se, caduto in terra, non muore. Solo se muore produce molto frutto; cioè bisogna perdere la vita per Lui e, in questo modo, si conserva per la vita eterna.
Quante volte abbiamo commentato questo brano di Giovanni! Quante volte abbiamo tentato di immedesimarci concretamente nel perdere per ritrovare, morire per vivere, ma come è difficile passare da un progetto ideale all’attuazione reale. Può capitare perfino che ne abbiamo appena parlato e ci capita subito dopo l’occasione di perdere, sperimentare la morte del chicco che siamo noi, ma siamo trascinati dalla repulsione, dal desiderio di sfuggire la croce di un fallimento, una incomprensione, una umiliazione, un’ingiustizia concreta o di giudizio, una sofferenza morale nel non riuscire a creare comunione o subirne l’incrinamento, e questo non solo nelle nostre Comunità parrocchiali ma forse, talvolta, anche all’interno del Presbiterio o delle Comunità religiose. Provocare consapevolmente la mancanza di comunione è un grave peccato. San Paolo ne parla – sempre nella Prima ai Corinti – riferendosi alla mancanza di comunione e rispetto tra i fedeli della Comunità e giunge perfino a dire che “chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e sangue del Signore” (1Cor 11, 27), “perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (v.29).
Abbiamo pregato come responsorio il Salmo 114-115: “Ho creduto anche quando dicevo «sono troppo infelice». Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli”.
Oggi ricorre la memoria facoltativa di San Martino de Porres, religioso peruviano dell’Ordine domenicano, il primo santo di colore della Chiesa (San Giovanni XXIII, 1962). Ha creduto profondamente nonostante una oggettiva infelicità che poteva provenirgli da una situazione familiare deprimente; era figlio di un nobile spagnolo che mai si occupò di lui e di una ex schiava di origine africana.
Ha vissuto il morire del chicco di grano nell’impegno quotidiano per i bisognosi, con una profonda umiltà e in continuo spirito di preghiera specialmente nell’adorazione eucaristica.
Il suo esempio ci sproni e la sua intercessione ci sostenga nel comprendere, accettare e sperimentare il perdere per ritrovare nella logica del chicco di grano che, sull’esempio di Gesù, muore e porta frutto.
✠ Salvatore, arcivescovo