Omelia alla Ordinazione Presbiterale di Nicola Galante
Capua, Basilica Cattedrale, 18 giugno 2020
Carissimi sacerdoti, diaconi, religiose, seminaristi e fedeli laici, siamo radunati, dopo diversi rinvii, per la Solenne Celebrazione dell’Ordinazione presbiterale. Solenne sempre, nonostante alcune prescrizioni limitanti dovute all’emergenza sanitaria, ma che – come cittadini obbedienti alle leggi – cerchiamo di osservare, sapendo però che la salvezza fisica e spirituale viene solo da Dio.
Sabato scorso abbiamo celebrato la memoria liturgica di Sant’Antonio, il grande taumaturgo (il popolo ripete che fa 13 grazie al giorno), Santo tanto amato e onorato in tutto il mondo. Elegante e concreto predicatore, è venerato come dottore della Chiesa. Nell’Ufficio delle letture del 13 scorso la Liturgia delle Ore offriva alla nostra meditazione un brano dei suoi celebri discorsi nel quale il Santo sintetizzava molto bene quale deve essere per un predicatore la predica più bella e più vera. Scriveva Sant’Antonio: “La predica è efficace e ha una sua eloquenza quando parlano le opere”.
Tra poco con la preghiera consacratoria e l’imposizione delle mie mani, nella certezza della trasmissione apostolica, il diacono transeunte Nicola Galante sarà consacrato presbitero (da questo termine deriva prete che è una contrazione letteraria di presbitero) cioè “anziano” incaricato di insegnare, di santificare e di governare le anime.
Per il compito di santificare sarà chiamato anche sacerdote ma sarà soprattutto servitore dei suoi fratelli nella Santa Chiesa Cattolica.
Carissimo Nicola, sarai annunciatore della Parola che salva, sarai amministratore dei Sacramenti, i canali attraverso i quali giunge a noi l’effluvio liberante della Grazia divina, sarai guida del popolo fedele.
È quanto un Ministro di Cristo deve fare nella Chiesa: mettere al centro della predicazione Gesù Morto e Risorto e permettere – come diceva giustamente Sant’Antonio nel discorso sopra citato – che “parlino le opere”.
Prima lettura, primi versetti del libro di Geremia: il profeta è pienamente convinto di essere incapace di parlare degnamente in nome di Dio, nessuna presunzione – come può succedere anche oggi – nessun personalismo, nessuna illusione di sapere, ma solo piena coscienza di un grosso limite: “sono giovane, non ho esperienza, non so parlare…”.
Questa consapevolezza salva Geremia perché consente al Signore di rassicurarlo dicendogli che non sarà abbandonato a se stesso, non sarà solo con la sua intelligenza, la sua preparazione: “Non aver paura… perché io sono con te” e poi, nella visione, il segno che troviamo anche nei racconti della vocazione di altri profeti: ”Il Signore stese la mano, mi toccò la bocca e mi disse: «Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca»”.
Mi fa piacere che nell’intervista pubblicata nell’ultimo numero del settimanale Kairòs in versione digitale scaricabile sul nostro sito internet, tu abbia dichiarato: “Mi sento piccolo di fronte alla grandezza di questo dono, frutto della Misericordia di Dio che non sceglie i migliori, non premia i meritevoli, ma pone il suo sguardo sui piccoli, i deboli, per rivelare il Suo progetto”. Se questa consapevolezza è quella del profeta Geremia, puoi rassicurarti come lui con la certa promessa che l’Onnipotente metterà la Sua Parola sulla tua bocca.
Permettere al Signore di parlare in noi, nonostante la nostra pochezza della quale siamo convinti e certi e che dobbiamo dichiarare senza infingimenti, ci rende veri “ambasciatori” cioè trasmettitori di qualcosa che non proviene da noi, come diceva San Paolo nella seconda ai Corinti: “Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro” (5, 20).
Il brano della seconda lettura è tratto dalla prima lettera di San Pietro che esorta gli anziani – presbiteri – invitandoli a pascere il gregge loro affidato volentieri, senza interessi, con animo generoso, non padroni ma modelli del gregge (Cfr 5, 2-3).
Solo vivendo in questo modo la nostra consacrazione potremo “ricevere la corona della gloria che non appassisce quando apparirà il Pastore supremo” come conclude San Pietro.
“Voi siete il sale della terra …. voi siete la luce del mondo” dice Gesù nel brano di Matteo ora proclamato.
Il sale serve a dare sapore, a preservare dalla corruzione. Se non dà sapore, se non preserva, si getta; la luce si mette sul candelabro perché illumini e aiuti a scoprire il senso della vita, se si nasconde non serve.
Carissimo Nicola, che la tua “luce” – la nostra luce – possa chiaramente risplendere davanti agli uomini, perché non solo ascoltando, ma vedendo le nostre opere buone possano rendere gloria al Padre che è nei cieli. È un impegno difficile specialmente in questo momento e in questo contesto. Lo ricorderai per tutta la tua vita.
Carissimi fratelli, non sappiamo ancora dove ci condurrà l’emergenza sanitaria mondiale, non ne conosciamo ancora tutte le conseguenze sull’economia e i rapporti sociali; notiamo però già evidenti segni di un aumento della povertà in coloro che già erano poveri e l’inizio di indigenze in coloro che non lo erano.
Purtroppo, ma voglio sperare di sbagliarmi, non mi accorgo di una reale ripresa della vita religiosa, sembra invece che ci si accontenti qualche volta di seguire, per televisione o attraverso piattaforme informatiche, la celebrazione della Santa Messa. Ma un servizio certamente utile nell’emergenza oppure dedicato agli anziani e malati impediti, non può diventare uno spettacolo come gli altri. La partecipazione alla Celebrazione Eucaristica è un’altra cosa. Forse, come già altre volte ho detto ai sacerdoti e come il Comunicato della Conferenza Episcopale Campana del 15 maggio scorso ha affermato, sarebbe il caso che i parroci limitino o eliminino quello che era giustificato quando i fedeli non potevano partecipare alla Messa.
“Deve starci a cuore il senso della Comunità reale e non virtuale” (CEC).
Proprio oggi la seconda lettura della Liturgia delle Ore ci ha proposto un brano tratto dal “Trattato sul Padre nostro” di San Cipriano, vescovo di Cartagine, martirizzato il 14 settembre del 258. Scriveva San Cipriano: “Gesù afferma che se qualcuno mangerà del suo pane vivrà in eterno. Da ciò si deduce che se qualcuno si astiene dall’Eucaristia, si separa dal corpo di Cristo, e rimane lontano dalla salvezza. È un fatto di cui preoccuparsi”.
In questo clima sociale-religioso che privilegia le apparenze dimenticando la sostanza, tutti – e particolarmente i sacerdoti – siamo chiamati a dare la nostra testimonianza di credenti dando sapore alla vita e illuminandone i sentieri.
✠ Salvatore, arcivescovo